RICETTE
Tortini fondenti noci e cacao dal cuore morbido
Tortini fondenti noci e cacao dal cuore morbido
saporélite.com
Una storia da raccontare gustando questa ricetta.
Tutti zitti, arrivano le “Masche”
Prima dell’ultima guerra, in ogni casa delle Langhe in Piemonte, alla sera durante tutto l’inverno si celebrava il rito della “veglia”. Grosso modo dai Santi fino a Pasqua. Finito di seminare il grano, in campagna non c’era più nulla da fare. Gli uomini accudivano alle bestie, raccoglievano sterpi, spaccavano la legna per il fuoco e all’occorrenza facevano le “roide” (un lavoro obbligatorio, non retribuito, di pubblica utilità) a spalare la neve. I più bravi riparavano gli attrezzi vecchi e ne costruivano di nuovi. Le donne “non facevano niente”. Perché i mestieri di casa, dal pulire al cucinare, dal lavare al filare, e cucire e rammendare, e badare ai bambini, da noi non era considerato “lavoro”. L’unico lavoro riconosciuto come tale era il rompersi la schiena sulla terra, a zappare, a vangare, a falciare, e tutto il resto. Sia gli uomini che le donne, dopo cena, non si sarebbero persi la veglia cascasse il mondo. Il rito, antichissimo, evidenziava il profondo senso dell’ospitalità della gente di campagna. Nessuno temeva di disturbare. Non ci si aspettava un invito formale. Non si era tenuti ad avvertire. Si andava e basta. E ovunque, si era ben accetti. L’ospite offriva quel che aveva…povere cose, conservate per i “viàui” (coloro che vanno in veglia) con oculata parsimonia. Chi offriva si poteva poi rifare in casa degli altri. Nessuno scroccava per dignità…Si discorreva delle nuvole del paese e dei nostri bricchi (colline alte e scoscese, come quelle dell’alta Langa), del tempo, dai cui capricci dipendevano in raccolti. Si questionava sulla “luna” più giusta per imbottigliare il vino, per tosare le pecore…ma, più di ogni altro argomento, si parlava di “masche”. Non passava una sera senza che qualcuno riproponesse una vecchia storia o ne raccontasse una nuova. Vera com’è vero Dio. Vissuta dal narratore, vista con i suoi occhi. In verità ben poche erano di prima mano. Per lo più erano storie vecchie come il cucco, che si tramandavano da una generazione all’altra. Ma chi le raccontava parlava sempre da protagonista. Le arricchiva con i particolari che l’estro del momento gli suggeriva. Le modificava secondo l’umore dell’uditorio…
Ma chi sono le “masche”?
Masca, nella parlata delle Langhe, vuol dire molte cose: strega, mago, stregone, spiritello dispettoso. Raramente la masca compie opere buone, più spesso si diverte a creare scompiglio e spaventare a morte la brava gente, soprattutto di notte. A volte si accontenta di scherzi e bravate, altre volte arriva a compiere efferatezze come l’infanticidio, e altre volte ancora scatena le forze della natura. In genere ha aspetto di vecchia, ma assume di volta in volta le sembianze che più le convengono: pipistrello, capra, gatto, maiale. La masche fanno parte del quotidiano della gente: sono vicine di casa, vedove, zitelle, suocere, guaritrici, indemoniate, donne giovani e belle o vecchie sdentate dallo sguardo inquietante. Masche “semplici” o “importanti” ma incarnate nella vita, in esistenze apparentemente normali, talvolta anche capro espiatorio che serviva ad incanalare l’ignoranza incolpevole dei nostri antenati. Ci si può credere o no, ma i vecchi un tempo ci credevano tutti, e tra i più giovani non tutti sono disposti a riderci sopra neanche oggi.
La storia di zio Cecu
Tratto dal libro “Storie di Masche” di Maria Tarditi
Mio zio Cécu doveva avere fatto qualche patto segreto con le capre. Perché c’entravano in tutte le sue storie. Anche nell’unica vera favola da bambini che ci ha raccontato tante volte. Quella capra dalla voce cavernosa, che non aveva paura di nessuno, e minacciava di mangiarsi gli animali più grossi di lei, veniva qualche volta a spaventarmi nel sogno. Però, a pensarci adesso, era più sbruffona che malvagia. Invece, la capra nera che gli apparve una notte, quando era ancora giovanotto, quella sì che era cattiva! Una vera diavola! Una vera masca! Quella volta rischiò di morire di paura. Ancora dopo tanti anni, quando raccontava l’avventura, gli si imperlava la fronte di sudore:…“ Era andata così. Avevo ventiquattro anni. Era notte di carnevale. Tornavo a casa dopo aver fatto bisboccia con gli amici dei Bozzetti. Da un pezzo era suonata la mezzanotte. Avviluppato nella mantellina, mi affrettavo per la stradetta che corre lungo Bormida, al chiaro delle stelle. Cera una neve gelata che ricopriva i prati di San Biagio, intatta, senza una ‘pianata’ (orma di piede o di zampa). All’altezza della casa di Davide, ho sentito dietro di me uno scalpicciare strano. Mi sono voltato. Non ho visto nessuno. I passi si erano fermati anche loro. Ho ripreso a camminare, e subito lo scalpiccio è ricominciato. “Non fate gli stupidi! Tanto non mi fate paura!” Ho gridato nel buio. Ero sicuro che fossero gli amici a farmi uno scherzo. Silenzio. Niente di niente. Allora sono andato avanti. Aspettavo la risata dei compagni. E invece riecco i passi. Tum-tum-tum-tum-tum…Mi sono fermato ancora una volta, più irritato che impaurito. Ancora il silenzio. Non il più piccolo movimento tra i cespugli dei salici vicino all’acqua. L’unico posto dove era possibile nascondersi. Ho cominciato ad avere paura…ma non ci volevo ancora credere… “Finitela, scemi! Adesso basta!!”. Speravo ancora che quelli dei Bozzetti mi rispondessero. Arrivato al ciancòt (passerella di legno), mi sono di nuovo fermato. Ero proprio deciso a scovare quei balordi che adesso stavano esagerando. Ma, prima di avere il tempo di voltarmi, mi è saltata davanti una capra nera. Uscita dal nulla. Aveva le corna a tortiglione, il muso da donna. E un ghigno da masca sopra la barbetta. Dal terrore mi sono paralizzato. La masca, che stava a un tre metri di distanza, mi si avvicinava, più lenta di una lumaca. Centimetro dopo centimetro…Senza muovere le zampe…Scivolava sulla strada senza il minimo rumore. Proprio come un lumacone! L’unica cosa che sono riuscito a pensare lì per lì è stata quella di scappare. Verso il paese? No! La bestiaccia bloccava il passo verso il ciancòt. E in pieno inverno, non si poteva certo traversare Bormida a piedi! Tornare ai Bozzetti? Sarebbe stato come dire alla masca: “Alè! Prendimi!” Disperato, ho pensato di affrontarla, di agguantarla per le corna e torcerle il collo come a una gallina. Ma, posto che fossi riuscito ad afferrarla, ce l’avrei fatta ad averne ragione? Le masche hanno una forza del diavolo! Tutti sti arzigogoli nel tempo di dire “amen”. Mi ha salvato l’istinto, che è la cosa più utile rimasta all’uomo dal tempo dei tempi. Ho brancato (afferrato) un pietrone. L’ho tirato contro il mostro. E intanto ho fatto il più convinto segno di Croce della mia vita. La capra ha avuto un sussulto, come se avesse preso la scossa. Ha belato con una voca stridula, di donna spaventata. Si è contorta come un serpente. Come scottata. Poi si è voltata di scatto. È volata sulla passerella. Proprio volata! Non ho sentito il rumore degli zoccoli! Finalmente è scomparsa di là da Bormida. Ho visto qualcosa sul ciancòt: erano due mucchietti di merda. Non a palline dure come quelle delle capre, lo sapete. Proprio merda di cristiani. Fumava e puzzava. “Se l’è fatta sotto la maledetta!”, ho A questo punto di solito interveniva il nonno, ridendo: “La capra l’hai vista, si. C’è sempre qualche bestia sperduta per la campagna”. “Ma non con il muso di donna!”, ribatteva lo zio. “Il muso di donna e…il resto te li hanno messi in testa i troppi bicchieri di vino che ti hanno dato ai Bozzetti…”. Zia Margherita sosteneva il marito: “Qualche volta se la sogna anche di notte, la masca. E grida nel sonno. Quando era giovane, ci voleva una damigiana di vino, per inciuccarlo! E non era mica un bambino quando ha visto la capra!”. “Io non dico che non si sia preso una bella paura. Ma torno a dire che, di notte, quando uno è un po’ brillo, ci vede anche quello che non c’è”. “E allora come si spiega, secondo voi, -sbottava la mamma- che il giorno dopo la Ghita dei Freisa avesse la testa rotta? E fosse mezza bruciata sulla schiena? Eh? Lo sapevano tutti che era una masca. E i Freisa sono proprio sopra i Bozzetti. “Non si spiega”, rideva il nonno. Era stato proprio così: la Ghita dei freisa, masca temutissima, aveva girato per più di un mese fasciata come una mummia. E non aveva detto a nessuno il perché. “Se non è una prova questa”, concludeva lo zio Cécu. Il nonno stava zitto.